Il western di Sergio Leone e la Storia che fa il giro.

Devo essere sincero con me stesso, il cinema Western rimane quel genere che riesce a farmi ancora provare emozioni contrastanti.

Mi piacciono le sue contraddittorie leggende e le sue drammatiche verità, i suoi spazi a perdita d’occhio e le sue strade polverose.

Penso, in assoluto, che ci sia più cinema in tutta la sequenza d’apertura di Sentieri Selvaggi di John Ford che nell’intera filmografia di Quentin Tarantino.

E lo dico da fan numero uno, nonché della prima ora, del caro buon vecchio Mr. Brown.

Sul serio, fatevi un favore e guardatevi, o riguardate che male non vi fa, quei primi minuti e poi provate a ripensare a quanti registi hanno riproposto, con dinamiche simili, quella stessa identica scena. Tarantino compreso. Ma quello di Ford, rimane un cinema western prevalentemente legato al territorio e a certe regole e coordinate ben precise tracciate da altri parecchi anni addietro.

Lasciamo per il momento da parte il Western americano, le sue regole, e prendiamo in considerazione il cosiddetto spaghetti-western, o western all’italiana. Un sotto genere indissolubilmente legato ad un altro Maestro del Cinema moderno. Un regista che è riuscito, in un colpo solo e con un film, a riscrivere non solo le regole del genere Western ma a inventare un nuovo modo di fare cinema.

Stiamo parlando ovviamente del maestro del cinema Sergio Leone. 
Quello che ha fatto Leone è stato introdurre, nuove tecniche in fatto di regia: primi piani stretti sui volti bruciati dal sole dei protagonisti, profondità di campo estremizzata. Tempi dilatati fino all’ossesso nei momenti clou, pistole inquadrate da dietro che sparano all’orizzonte e, non meno importante, una particolare caratteristica narrativa presente in quasi tutti i suoi film (fanno eccezione, in questo caso, solo Il Colosso di Rodi, il suo esordio alla regia, e Giù la Testa!, pellicola che il regista non avrebbe dovuto dirigere). Una caratteristica che troviamo per la prima volta, se la guardate con attenzione e dall’inizio alla fine, già nella Trilogia del Dollaro.

La circolarità della storia

Quello che troviamo nel cinema western di Sergio Leone, in definitiva, è una sorta di circolarità della storia. Una tecnica narrativa grazie alla quale, il regista, fa agire e muovere i suoi personaggi all’interno di veri e propri cerchi, o circuiti molto più grandi, verso il loro irrimediabile fato.

Inizialmente avviene, secondo quanto introdotto dal regista nella sua seminale Trilogia, che i protagonisti (generalmente il buono e il suo antagonista) si trovino l’uno di fronte all’altro, e in un vero e proprio cerchio, per il duello finale da spaghetti-western inventato da Sergio Leone in cui i due pistoleri devono far tornare i conti e chiudere quell’immaginario cerchio narrativo, che era stato aperto all’inizio della pellicola, nell’unico modo possibile, ovvero con la morte di uno dei due.

Non ci credete?

Prendiamo sempre ad esempio, la Trilogia del Dollaro.

Il primo film della saga, che risale al 1964, è Per un Pugno di Dollari. Nel film un pistolero di nome Joe arriva a cavallo di un mulo in un paese dove due famiglie si fanno la guerra per il potere. Il piano del misterioso pistolero, interpretato da Clint Eastwood, pare molto semplice: mettersi al servizio prima di una famiglia, poi dell’altra e infine fare piazza pulita dei superstiti.

Come ti reinvento il duello

Analizziando lo scontro finale si può notare che Joe affronta i componenti della famiglia Rojo nella piazza centrale del paese e, guardando le inquadrature effettuate dall’alto, ci si accorge di come la piazza non sembri proprio rotonda ma appaia più simile ad un rettangolo.

A formare il cerchio, o semicerchio in questo caso, ci pensano proprio i componenti della famiglia messicana alle spalle del loro capobanda Ramòn. Un caso? Forse.

Poi il pistolero senza nome fa piazza pulita dei banditi, si risistema il poncho, salta in groppa al suo fido mulo e se ne ritorna lì da dove era venuto.

I conti son tornati e il cerchio della vita e della morte si è chiuso una prima volta. La circolarità della storia è stata rispettata.

Migliorare la tecnica

E’ tutta questione di migliorare la tecnica.

Nel ‘65 Leone gira il secondo capitolo della sua personale trilogia. Il film è “Per Qualche Dollaro in Più” e anche in questo film, come nel primo, abbiamo un duello finale risolutore.

I due antagonisti si trovano l’uno di fronte all’altro, questa volta ai margini di un vero e proprio cerchio tracciato per terra, sotto il sole e in una zona imprecisata. Tutta la scena sembra svolgersi al di fuori della realtà.

Poi un carillon installato dentro un orologio da taschino, un oggetto che ha la forma di un piccolo cerchio, suona per l’ultima volta la sua nenia e il cattivo di turno (un drogato Gian Maria Volontè) muore.

I conti son tornati ancora una volta e il cerchio si è chiuso di nuovo.

Il cerchio si chiude ancora…

Nel 1966 arriva nelle sale quel picaresco capolavoro del cinema western che è Il Buono, il Brutto, il Cattivo. Nel film tre autentici bastardi cercano, rincorrendosi per il west immaginato da Leone, una cassa piena di dollari sepolta chissà dove. E dovranno sudare le proverbiali sette camice prima di mettere le mani sul malloppo.

Verso la fine del film vediamo l’uomo senza nome, interpretato per la terza volta da Clint Eastwood, spingere il povero Tuco, a suon di cannonate, nel luogo in cui si trova il tanto agognato tesoro, non prima, però, di aver fatto fumare l’ultima sigaretta ad un morente Giugliano Gemma ed essersi cambiato lo spolverino, che aveva indossato nella pellicola fino a quel momento, con lo stesso logoro poncho indossato nel primo film del ’64 che diede inizio alla trilogia.

Ed è nel finale di questo western che Leone supera letteralmente sé stesso.

In un primo momento il regista mette i tre bastardi l’uno contro l’altro per il confronto finale, regalandoci un Triello nella piazza centrale del cimitero, un cerchio questa volta perfetto, e successivamente ci fa vedere il personaggio di Clint Eastwood che si allontana per la terza volta, con le bisacce piene di dollari, verso l’orizzonte e, sicuramente, verso nuove avventure.

E, forse, verso quel paesello già visto nel primo film della Trilogia del Dollaro.

Infatti, se si guarda in sequenza la fine de “Il Buono, il Brutto, il Cattivo” e immediatamente dopo l’inizio di “Per un Pugno di Dollari” si noterà come le due parti possano combaciare perfettamente. Nell’ultimo film della trilogia il persoanggio di Clint Eastwood va via, nel primo film lo stesso personaggio arriva.

Il personaggio interpretato da Clint Eastwood, l’archetipo moderno, secondo il regista, del pistolero senza nome, attraversa tutti e tre film come se fosse in un’unica storia circolare che si ripete all’infinito.

A dir poco geniale.

Il cerchio e il ricordo

Il tema della circolarità, ritornerà altre due volte nella carriera di Sergio Leone, ma sarà più un aspetto simbolico e quindi legato più al ricordo e alla sfera onirica.

In uno dei suoi ultimi capolavori, C’era una volta il West, film del ’68 che è un’ode alla morente frontiera in favore del progresso. Un pistolero senza nome, interpretato da quella faccia di pietra di Charles Bronson, cerca vendetta mosso da un ricordo d’infanzia. Ci sarà ancora un duello finale con due uomini uno di fronte all’altro, pronti a chiudere i conti col passato una volta per tutte.

La circolarità della storia è indicata dai ricordi che riaffiorano nella testa del protagonista. Viene dunque accentuata da un trucco ottico di una regia sublime che ci fa apparire, tramite una particolare lente deformante. Come se i due pistoleri si affrontassero all’interno di un vero e proprio cerchio. Un cerchio da cui solo uno potrà uscire vivo.

Portata a termine la sua vendetta, per l’uomo senza nome arriverà di nuovo il momento, di ritornare in quel nulla da cui era silenziosamente sbucato.

L’ultima storia

L’ultimo film di Sergio Leone, C’era una Volta in America (1984), è l’ennesimo capolavoro. La summa di tutte le tematiche presenti nella sua cinematografia elevate all’ennesima potenza.

Nonostante sia un film sull’epopea gangster, nella pellicola ritroviamo quelle tematiche tanto care al suo cinema western. Un uomo che ritorna per chiudere i conti di un passato scomodo, un duello finale e una circolarità della storia molto legata al piano onirico.

Il film inizia con una caccia all’uomo. In sottofondo, udiamo lo squillo di un telefono che sembra ripetersi all’infinito. La sequenza è molto lunga, caratteristica dei film di Leone sono i tempi sempre molto dilatati. La sequenza termina in una fumeria d’oppio della New York anni ’30, un periodo fertile per la malavita organizzata e epoca d’oro del proibizionismo. Qui troviamo Noodles, il gangster interpretato da Robert De Niro, che si sveglia improvvisamente da un lungo sogno.

Avvertito, appena in tempo, che qualcuno lo cerca per toglierlo di mezzo, Noodles decide di scappare il più lontano possibile. Magari con il primo treno della notte in partenza da New York, e di rimanere nascosto fino a che non si siano perse per sempre le sue tracce. 

Noodles riesce a fuggire ma sarà costretto a ritornare, a distanza di anni, nel suo vecchio quartiere. Qualcuno, infatti, è riuscito a scovarlo e forse vuole regolare un vecchio conto aperto con lui più di 30 anni prima.

Com’è consuetudine ci sarà il solito duello, uno strano confronto senza armi, i debiti verranno nuovamente pagati e l’uomo venuto dal passato tornerà per l’ultima volta là da dove è venuto.

Il classico finale da spaghetti-western.

Con un ultimo flashback, che tale potrebbe non essere, Sergio Leone ci guida al vero finale di “C’era una Volta in America”, ambiguo e geniale al tempo stesso, e ci riporta in quella fumeria d’oppio della New York anni ’30 dove tutto è iniziato e, prima dei titoli di coda, ci regala un bel primo piano di un Noodles, nuovamente giovane, che sorride verso di noi in modo enigmatico attraverso un velo scuro e trasparente.

La storia ha fatto per l’ennesima volta il suo lunghissimo giro e il protagonista, questa volta, per tornare al punto di partenza ha dovuto attraversare sia il tempo che lo spazio creando, nel frattempo, un perfetto e infinito loop in cui il passato e il futuro si rincorrono senza più segreti nella testa del gangster.

O forse, più semplicemente, i minuti finali sono solo un lontano ricordo del protagonista, ormai anziano, che ha deciso di lasciarsi per sempre il passato alle spalle.

Due tesi entrambe giuste, secondo me, che fortunatamente non snaturano il capolavoro finale di un regista che, con i suoi film, ha cambiato per sempre il mondo del cinema, che ha avuto ben chiaro sin dall’inizio quali fossero le sue capacità e che ha saputo reinventare, con nuove dinamiche, nuovi canoni cinematografici e nuovi registri perfezionati, un cinema classico e leggendario generato in luoghi lontani e pieni di polvere.

Luoghi sacri del cinema western dove il più delle volte la morte si confonde con la vita e viceversa, e dove vengono tracciati percorsi e sentieri per quegli uomini pronti ad affrontare il proprio destino.

V per Vertigo!

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