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Dogman, la recensione: Besson torna con un film dalla bellezza sconvolgente che parla il linguaggio del cinema e di Dio

Luc Besson cala l’asso. Ancora di più, cala il poker. Anzi, il Joker, perché il suo Douglas è un sadico (auto)sabotatore che odia la propria immagine e ne ama il riflesso e quindi per sorridere deve spaccarsi il viso, un alieno in esilio dal mondo che fatica a stare in piedi e per sopravvivere costruisce un luogo-non-luogo in orbita nel buio del cosmo. Douglas è anche un Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri, con un grande arco forgiato dalla sofferenza e tantissimi cani al posto delle frecce. Il Douglas di Caleb Landry Jones – che straripa come un fiume in piena emotività regalando un’interpretazione monumentale – è, molto semplicemente, un personaggio autentico e indimenticabile.

Ogni inquadratura di Dogman – presentato in esclusiva alla Mostra del Cinema di Venezia – è imbevuta di una poesia sotterranea e grottesca, intima e spaesante allo stesso tempo. L’amore è quello vero, celeste, che implode nell’iride e piove luce nell’anima di chi guarda. L’odio è solo un riflesso nello specchio, che ingannevolmente si consuma nell’estasi della vendetta ma in realtà brucia tra le fiamme ancestrali della natura e segue il processo ciclico del divino: (si) crea e (si) distrugge, poi ridiventa amore.

Quello di ibridare vari generi è un rischio in parte calcolato, in parte volutamente no. Besson, tramite una regia spettrale e divina(toria), decostruisce l’andamento classico e libera con bestialità la narrazione dal guinzaglio della struttura, ma agisce come il suo protagonista: non (si) traveste (il film) da alieno per (farlo) sembrare o diventare qualcun altro, bensì per nascondere la fermezza e la sussistenza dell’angoscia sotto lo st(r)ato apparente di trasformismo.

Così facendo, certo, l’autore francese si espone agli spropositi figli dell’azzardo e inevitabilmente li sconta, commette errori, cede a forzature. Sono però difetti di poco conto e per giunta anche apprezzabili nella passionale sfrontatezza che li caratterizza. D’altronde qui si parla il linguaggio del Dogman, mica del dogma, il linguaggio divino e scomposto, illeggibile e imperscrutabile, che unisce uomo e animale permettendo loro di comunicare e di amarsi senza condizioni. Questo film non ci fa chiedere, ci fa credere in Dio e, di conseguenza, anche nel cinema.

Luc Besson firma un'opera potentissima e divinamente emotiva, che parla il linguaggio del cinema e di Dio. Un coraggioso miscuglio di generi tenuto in piedi da una regia che insiste sul corpo e sull'anima di un protagonista autentico e indimenticabile.

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