Ferzan Ozpetek sbarca alla Festa del Cinema di Roma completamente intonato al contesto, poiché si presenta con un film ambientato a Roma e soprattutto in un cinema. “Nuovo Olimpo”, questo il posto dove prendono vita gli avvenimenti, una sala cinematografica degli anni Settanta che avvolge chi entra con il suo intenso buio crepuscolare, un portale magico sospeso e libero che conduce fuori dallo spazio-tempo. Il Nuovo Olimpo non è soltanto un cinema dotato di proiettore nel quale ammirare i più grandi capolavori della settima arte, è anche un ambiente in cui incontrarsi e (dis)perdersi – la mappa che Enea consegna a Pietro funziona solo nel mondo esterno, lì dentro non serve -, (dis)innamorarsi nei cessi, fumare sigarette nel corridoio e darsi appuntamenti senza orario.
Il cinema come luogo fisico si fa rappresentazione di un tempo e di una vita (non passati ma) differenti, quando innamorarsi era ancora bello e travolgente e le interazioni umane erano (oppure saranno) il centro emotivo e nevralgico dell’esistenza. Nel presente comatoso, asettico e noiosamente temporale – nel senso che il tempo è scandito in maniera cronologica -, questo è diventato impossibile. La metafora del suddetto processo trova un evidente riscontro nella sala cinematografica, che allo stesso modo degli spazi della vita quotidiana ha smesso di essere frequentata con vivacità e soprattutto di essere un punto di riferimento per conoscere e aprirsi allo sconosciuto.
È ciò che accade nel momento in cui al buio si preferisce la perversione della luce (dei riflettori) e il sublime panico causato dalla grandezza delle immagini viene sostituito dalla miniaturizzazione rassicurante degli schermi. All’interno di questa ingombrante cornice, Ozpetek disegna una storia d’amore straziante che permea, oltrepassa e distrugge il tempo invece che percorrerlo regolarmente. In un tripudio di accadimenti e manifestazioni – ce n’è anche una politica che provoca l’iniziale rottura tra i protagonisti – accese e accecanti – Enea ad un certo punto diventa veramente cieco -, immerse nei più radicati e radicali topoi del regista – sì, c’è una terrazza enorme -, l’amore (sopra)vive al trascorrere degli anni e appare come ibernato ogni qual volta (non) (r)esiste nel presente.
La poesia di questo canto lirico e ribelle aiuta a chiudere un occhio di fronte ad alcune forzature e ingenuità della sceneggiatura, che spinge su tasti estremamente autoreferenziali rispetto alle esigenze della storia, ma d’altra parte in tal modo rafforza la dimensione oscillante, anti climatica e sospesa del racconto. Fondamentali e scioltamente danzanti i personaggi femminili, in particolare la Titti di Luisa Ranieri, deus ex machina pronta a regalarci un biglietto per il Nuovo Olimpo. Per un Nuovo accecante Cinema Paradiso.