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Perfect Days di Wim Wenders : come la semplicità rende vivi

2023, Tokyo, Giappone. È l’alba e Hirayama (Kōji Yakusho), un uomo di oltre 60 anni si sveglia e ci porta nella sua routine. Riporre il tatami, spruzzare le sue piantine sotto la luce al neon e subito un po’di toeletta. Metodico e preciso nei suoi gesti, niente è lasciato al caso. Il silenzio viene interrotto soltanto dopo qualche minuto, dalla colonna sonora che esce dalle casse del suo van, intente a riprodurre la cassetta di “House of the Rising Sun” degli Animals.

Finora sappiamo soltanto che Hirayama pulisce i bagni pubblici di Tokyo con totale abnegazione ed è di poche parole. Si nutre di ombre. O meglio, è affascinato nel vedere la luce attraverso le foglie degli alberi che immortala con la sua macchinetta analogica durante la pausa pranzo di ogni giorno. Come la musica così le foto. Nastro e rullino. Arte tattile privata e personale, un approccio sicuramente controcorrente in una delle città più all’avanguardia del Mondo a livello tecnologico.

Conserva scatole e scatole riempite grazie ai rullini sviluppati uno dietro l’altro. Foto in bianco e nero. Cristallizzazioni di luci e ombre, che si riversano nei suoi viaggi onirici notturni a bordo del suo tatami rasoterra. La prima parola che proferirà il nostro ermetico protagonista è: “Ehi che c’è, come va?” rivolta ad un bambino rimasto chiuso in uni dei bagni da pulire. La mamma viene subito ritrovata, ma come la maggior parte dei cittadini giapponesi non intrattiene sguardi o contatti umani superflui, poiché figlia di una società frenetica ed asettica nella quale Hirayama è solo un umile ingranaggio.

Ma nella stasi della routine, di questi “Perfect Days” (non manca il brano di Lou Reed nella colonna sonora del film come nella colonna sonora della vita di Hirayama) succede sempre qualcosa. Se i suoi rituali metodici lo aiutano a trovare un senso, sono gli imprevisti a fargli vivere la vita! Uno sguardo con uno sconosciuto, biglietti lasciati da ignoti, una nuova pianta da cogliere ed aggiungere alla famiglia, una nipotina cresciuta che, scappata di casa, non ha esitato a rifugiarsi da lui. È la figlia di sua sorella con la quale non parla da anni, ma i retroscena sono lasciati alla nostra immaginazione poiché non ne sapremo mai i motivi. Sono molte le questioni lasciate volutamente aperte dal regista. Hirayama si rende inafferrabile, per rimanere fedele al suo stile di vita semplice (chi può dirlo a questo punto se sia per scelta oppure no) e anticonformista.

Meravigliosa la scena in cui entrambi, zio e nipote, scattano fotografie, lei con il suo nuovo iPhone e lui con la macchinetta a rullino. Passato e presente intenti a coesistere affettuosamente.

Hirayama è costretto a essere un po’ più loquace data la nuova presenza nella sua vita, si dimostra uno zio sorridente, premuroso e generoso. In un giro in bicicletta la bambina gli chiede di andare al mare. Lui le risponde: “Un’altra volta”. “Quand’è un’altra volta?” chiede Niko (questo il nome della ragazza), con l’impazienza tipica della preadolescenza. La risposta che riceve è indubbiamente pregna di fascino, quasi pari a quello che suscitano i componimenti haiku:

“Un’altra volta è un’altra volta adesso è adesso”.

Adesso è adesso. Hirayama vive nell’adesso. Si sveglia e appena apre la porta alza gli occhi al cielo inspira e sorride, nonostante dovrà recarsi a svolgere un lavoro umile, usurante e mal retribuito. Ogni cosa vissuta nel presente è un motivo in più per essere grati e vivere la vita nelle sue piccole cose, nei piccoli dettagli che sfuggono all’occhio distratto. Per quanto retorico possa sembrare, questo approccio apparentemente semplicistico alla vita è la chiave della serenità interiore. Una vita non vissuta all’inseguimento di emozioni forti, di scossoni drammatici, bensì nella semplicità e in un flusso nel quale non ci si aspetta nulla ma si accoglie ciò che arriva, diventando capaci di commuoversi sulle note di “I’m Feeling Good” di Nina Simone mentre si guida con il Sole negli occhi verso il solito lavoro, mentre allo spettatore non resta che ritrovarsi a sorridere.

La nuova pellicola di Wim Wenders (Il cielo sopra Berlino) uscita in Italia il 4 gennaio, sceneggiata dallo stesso regista e da Takuma Takasaki è di una linearità superba. Con una manciata di attori nel cast il film può risultare a tratti lento e poco scorrevole, ma da spettatori si ha sempre la fiducia di essere guidati da un fil rouge ineffabile, da qualcosa di più grande e di sensato e perfetto come un ingranaggio.

Di gran lunga più godibile di altri film tanto astrusamente pretenziosi quanto incredibilmente vuoti. Estremamente consigliato per l’universo immersivo che è in grado di creare.

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