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Nerdpool incontra Lorenzo Palloni

Lorenzo Palloni è un autore poliedrico, da sempre impegnato in mille e più progetti. Sceneggiatore e fumettista, si divide tra numerose pubblicazioni in Francia e in Italia, il collettivo Mammaiuto, la Revue Dessinée e l’insegnamento. Abbiamo avuto modo di parlare con lui, in un’interessantissima chiacchierata che spazia dal futuro dell’informazione alle varie facce del conflitto, passando per Burn Baby Burn, la sua ultima opera edita da Saldapress.

La tua ultima fatica, Burn Baby Burn, racconta storie di grande violenza, conflitto sociale e razziale, ma soprattutto si tratta di storie inserite in un contesto reale. Perché questa volta hai deciso di raccontare fatti realmente accaduti?

Herzog, regista tedesco dagli anni 70’ a oggi, ha sempre creduto che la finzione potesse portare la verità all’essenza. L’idea era di prendere una cosa che mi ossessionava da tanto, ovvero il limite fra la civiltà e ciò che non lo è più. Pensare a una guerra, fondamentalmente, però all’interno di una città, e si tratta di una cosa che è accaduta veramente. La cornice di realtà è talmente assurda per permettermi di portare il ragionamento dove voglio con la fiction, ovvero: qual è il limite fra pace e giustizia, ma anche fra civiltà e non civiltà? Sono stato in contatto per tanto tempo con l’università di Los Angeles, soprattutto con la professoressa Susan Anderson, esperta di storia afroamericana; mi ha messo in contatto con tantissime persone e mi ha dato molto materiale che mi ha permesso di capire come si muoveva la città in quel momento e dov’erano le rivolte. Da un punto vista temporale e storico quindi le cose che sono accadute sono reali, ma gli eventi che racconto, la storia orizzontale, è finta. Per quanto mi riguarda mi serve un vettore, un codice strutturato come può essere il noir, per trasmettere un messaggio. Quando si usano codici che già tutti conoscono è più facile che il messaggio arrivi, non devi affaticare il lettore saggiandone uno nuovo. Mi diverte come gioco intellettuale per trovare meccanismi di incastri. Nella storia abbiamo 12 personaggi in due linee temporali che si incastrano, e il come accade con la risoluzione di un giallo a 30 anni di distanza.

Come autore è fondamentale far emergere la verità attraverso cose che sono accadute realmente, così che le persone possano relazionarsi anche con ciò che non hanno vissuto. La verità che ho messo in Burn Baby Burn è molto esemplificativa di un occidente sempre molto vicino a un baratro. Se basta l’assoluzione di 5 pezzi di merda per far scoppiare una rivolta di tali proporzioni, vuol dire che quanto accaduto prima è stato clamoroso. Da un punto di vista storico, in America ci sono state rivolte razziali praticamente da sempre, più o meno dalla fine del 1800, anche se non così grandi come quella di Los Angeles. Quando si parla dell’America si parla di storia che tutti bene o male conoscono, soprattutto quelli nati e cresciuti tra gli anni 60’ e gli anni 90’. Abbiamo ben chiare le dinamiche americane, il che rende il paese qualcosa di molto vicino a noi, molto assimilabile. Si tratta di codici che aiutano il lettore, non devi spiegare come funziona la società. In questo caso la rivolta razziale è esemplificativa di come la società americana sia assurda, ma anche di quanto l’occidente sia sempre a un passo da qualcosa di inconcepibile, come guerre civili. Tutte le dinamiche per cui le guerre accadono sono quelle che portano le persone allo stremo, come le crisi economiche. A me interessava prendere i fili base di questo ragionamento, capire come effettivamente come società occidentale possiamo arrivare a un punto simile e come, se possibile, tornare indietro.

È anche per informarti così bene sull’argomento che hai impiegato così tanto tempo a scrivere questa storia?

Esatto, ho letto diversi libri fra cui The Contested Murder of Latasha Harlins. È stato complicato, anche perché molti resoconti giornalistici si contraddicevano. All’interno del contesto urbano di Los Angeles degli anni 90’ ci sono diversi focolai della rivolta che si espandono, fino ad arrivare all’apice che è sicuramente Korea Town, uno degli esempi più fulgidi anche da un punto di vista visivo: persone asserragliate sui tetti che sparano in strada, è qualcosa di abbastanza importante. Ho dovuto studiare tanti anni, anche se il lavoro più impegnativo è stato capire come incastrare le cose: all’inizio era una storia breve, poi nella mia testa sono diventati due libri. Ci lavoravo negli inframezzi tra altri lavori. Pensai di proporre a un disegnatore di lavorarci, ma sentivo che non era una storia che poteva fare qualcun altro a parte me. Era troppo complicata, troppo densa, ci sarebbe voluto troppo budget, sarebbe stato assurdo. A un certo punto l’ho proposto in Francia con Sarbacane e ha funzionato. Un’altra cosa che mi ha permesso di farlo è stata la pandemia, perché ha espanso il tempo di tutti. Non ho dovuto viaggiare, aspetto che nella mia vita è una costante. Ci ho messo almeno due anni in più rispetto a quello che avevo previsto, ho persino dovuto aggiungere altre dieci pagine allo storyboard. La storia ne aveva bisogno, la prima parte era troppo compressa e incredibilmente imponente dal punto di vista dei movimenti narrativi. L’idea era provare a replicare il meccanismo di prosa di James Ellroy, uno dei miei scrittori preferiti, rifacendomi in particolare al suo capolavoro, Sei pezzi da mille. Volevo portare quella densità di vita all’interno della storia, ma a fumetti. In ogni pagina ci sono 20 personaggi che fanno 20 cose diverse. È stato molto complesso da gestire ed ero limitatissimo, non potevo far entrare nel testo tutta la vita che avevo previsto. Ad un certo punto ho dovuto sacrificare alcune cose, ma era l’unico modo di farlo bene; se poi viene male beh, hai sprecato 13 anni della tua vita.

Sei soddisfatto del risultato finale?

Io sì. In Francia è piaciuto tanto, nonostante i miei dubbi che vengono da paranoie di quando ero bambino. Poi ho capito che non devi mai calcolare il feedback degli altri, devi solo essere soddisfatto del tuo lavoro, soprattutto se si tratta di fumetto, che non ti pagherà mai abbastanza per quello che fai.

Viviamo in un periodo storico che in questo momento è abbastanza travagliato; prima il conflitto in Ucraina, adesso la questione tra Israele e Gaza. Isole, fumetto che hai pubblicato in Italia qualche anno fa, proprio alla vigilia della guerra in Ucraina, tratta tra i vari argomenti anche l’insensatezza del conflitto. Anche se la storia inizia con l’essere ambientata in un periodo di relativa pace, l’ombra della guerra è sempre presente a partire dal personaggio di Kabè che arriva e porta con sé tutto quello che le persone che vivono sull’isola hanno tentato di lasciarsi alle spalle. Come senti il tuo fumetto in relazione a questi recenti conflitti?

Ovviamente misero, se bastassero i fumetti a cambiare il mondo saremmo salvi. L’idea è sempre raccontare una storia che sia in grado di smuovere delle idee, che possa portare a qualcosa, anche se sai che difficilmente cambierà le cose. Tutto ciò che puoi fare è portare il tuo pensiero, anche virtuoso e avviare un ragionamento. Quando raccontiamo una storia si dice che non c’è azione senza conflitto. Può anche essere minimo, due persone che si urtano con la spalla, ma è alla base di ogni narrazione. Questo mi porta a pensare che il conflitto sia una chiave di lettura universale di ogni cosa che facciamo e che faremo. I due racconti di cui stiamo parlando, Isole e Burn Baby Burn, sono incentrati sul conflitto. Il primo per la sua assenza, un tentativo di scappare dai conflitti quando non è possibile farlo, anche perché aiutano a crescere. Basti pensare all’adolescenza, un momento della vita allucinante dove l’essere umano si trova in continuo conflitto, con se stesso, con i genitori, con il mondo. È l’unico modo che abbiamo di evolvere, sbattendo la testa contro qualcosa e superandola. Burn Baby Burn racconta un occidente che fa finta di niente, ma che ha sempre la guerra in casa. Se racconti anche a grandi linee le grandi idee alla base delle società troverai sempre dei riscontri nella quotidianità o nel contesto. Quando racconti qualcosa sicuramente c’è di mezzo un conflitto, è solo un caso che io racconti di conflitti talmente estremizzati come una guerra e che accadano in momenti simili. Come ti senti a riguardo? Beh, non puoi sentire niente quando c’è un genocidio in atto e tu sei a casa a disegnare al caldo, ti senti malissimo, come tutti, ma se ci rifletti non è neanche colpa tua. Sai che quello che fai conta poco e niente perché come essere umano ci sono cose che sono ben più grandi di te.

Molto del conflitto si svolge anche in maniera virtuale, quindi non tra persone fisiche. L’impressione che lascia questo tipo di scontro è che spesso si esaurisca senza risolvere davvero nulla, tu che impressione hai a riguardo?

Bisogna vedere. Se si riesce a sublimare il conflitto scrivendo un commento caustico su Twitter o su Facebook scaricandosi, dall’altra parte si carica l’altro di una violenza priva di empatia. Quando siamo bambini e insultiamo qualcuno, vediamo immediatamente l’effetto delle nostre parole, si attivano i neuroni specchio e impariamo cos’è l’empatia attraverso la sofferenza dell’altro. Nel conflitto online questo non accade, ma carichiamo qualcun altro di una violenza tale che non è detto basti scaricarla a propria volta online. Secondo me a un certo punto tutto questo deve trovare uno sfogo fisico, pratico. Abbiamo un focus molto importante attraverso la comunicazione di quello che è il femminicidio, di quello che è il possesso di un uomo che si definisce patriarcale su una donna, questa cosa c’è da sempre, ma è in aumento. Nonostante ci siano sempre meno omicidi in Italia i femminicidi sono in aumento. Sono due cose molto importanti perché l’aggressività di quel mondo in decadenza, il patriarcato, si sfoga in una maniera che noi non riusciamo a controllare. Si sfoga non su internet, ma su persone vere. Credo che il conflitto, per quanto lo vogliamo online, a un certo punto si scaricherà sempre su qualcuno. La violenza è un tipo di comunicazione, impopolare certo, ma è alla base della comunicazione umana. È molto complicato levarsi da quella caratteristica naturale.

Sempre in merito all’esplosione di violenza che passa attraverso i social network, anche le notizie, così come le discussioni e le polemiche che si generano intorno ad esse, passano attraverso questi canali. Spesso questo accade prima ancora che attraverso mezzi specifici che si occupano di informazione come giornali, blog e riviste. Per te che fai parte della Revue Dessinée, rivista di giornalismo a fumetti, in che direzione credi stia andando la diffusione di notizie e come può influenzare il modo di fare informazione rispetto al passato?

La direzione in cui spero vadano le cose è verso un’informazione libera fatta attraverso canali indipendenti e che non siano in realtà rami di aziende più grandi. Il problema è che, con i social, l’informazione ha iniziato a passare per i canali dell’intrattenimento, qualcosa che era già successo prima con la televisione. C’erano comunque dei filtri e chi recepiva quelle informazioni sapeva che non erano soltanto intrattenimento. Con i social c’è stato un livellamento. Ci sono diverse strade verso cui sta andando l’informazione. Innanzitutto sta morendo quella cartacea. In parte è un bene perché si tratta solo dell’espressione delle grandi aziende del petrolio. Se oggi aprite un giornale il 40% delle pagine presenta pubblicità di macchine o aziende energetiche. Questo perché nessun altro può permettersi di mettere annunci. Si tratta di capitalismo puro e sta morendo. Uno, perché la gente si è abituata ad avere informazioni gratuite; due, non ci sono più i soldi di prima. Il settore del giornalismo cartaceo ha perso circa il 90% dei suoi ricavi dai lettori e non esiste un settore che possa rimanere in piedi con numeri simili. Resiste perché ci sono grandissime aziende che investono una quantità di soldi senza senso per tenere in piedi queste strutture e gestire un’informazione un po’ vetusta. C’è anche un altro modo di fare informazione, come quello che adopera Il Post, un modo molto virtuoso anche se fino a un certo punto. Il Post è come Radio Deejay degli anni 90’, da che era famosa la radio lo sono diventati gli speaker e i dj come personaggi. Il Post funziona allo stesso modo. Sono famosi i giornalisti, hanno una certa personalità che veicola le informazioni, sono star. Presti attenzione e ti informi, però sei quasi più interessato al pensiero del personaggio. Questo è un altro modo di fare informazione, anche se può essere visto come una specie di inganno: credi di informarti, e questo accade in maniera onesta e sensata, ma in realtà vuoi un personaggio che ti dica qualcosa.

È come se si trattasse del suo punto di vista piuttosto che una visione esterna e completamente acritica.

In realtà lo è, perché sono ottimi giornalisti con un’ottima filosofia, però è anche un gruppo chiuso, con un’idea pratica del giornalismo che a volte non è precisa o non così sfaccettata. C’è un modo di fare informazione con la Revue Dessinée che è adatto fino a un certo punto: è indipendente, e questo garantisce la verità, garantisce il fatto che puoi raccontare quello che vuoi. È anche il motivo per cui la Revue non avrà mai pubblicità. Quando sono stati tolti i fondi ai giornali una decina di anni fa, c’è stato il via libera ai soldi che arrivavano dalle grandi aziende. Questo ha complicato tutto, rendendolo di una faziosità incredibile. I social hanno peggiorato tutto in maniera sostanziale perché sono polarizzanti, l’algoritmo ti porta dove ti soffermi, hai una percezione molto settoriale del mondo. L’informazione passa in maniera superficiale e grezza attraverso i social, passa attraverso il Post con approfondimenti non così veloci quanto sarebbe richiesto e poi passa attraverso la Revue, che è un modo talmente lento di fare informazione che non può stare dietro agli avvenimenti del giorno, ma solo raccontare le grandi dinamiche, che non scadono. Un lavoro virtuoso per persone che vogliono assorbire il mondo e vogliono leggerlo al di là dell’informazione mainstream. Probabilmente la dieta giornalistica che si dovrebbe avere sarebbe leggere un po’ di tutto.

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