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Triangle Of Sadness, la recensione: il fascino indiscreto della borghesia

La stagione cinematografica 2022/2023 è stata inaspettatamente entusiasmante. Viene da ipotizzare che gli avvenimenti degli ultimi tre anni – ma anche il modo in cui sono stati gestiti dal circo(lo) mediatico e recepiti dai cittadini – abbiano risvegliato qualcosa nell’ambito artistico che prima si era sopito, le riflessioni profonde che offrono determinati film usciti di recente contengono riferimenti troppo spinti all’attualità per pensare che non sia così.

La postura critica di Ruben Ostlund non fa eccezione, anzi mette in scena – e si mette alla guida di – questo processo del tutto nuovo e intricato: in un momento storico nel quale la manipolazione e l’annichilimento generali si palesano in modo sottile e non esplicito, l’opera del cineasta svedese rintraccia questa tendenza, propone una fotografia del nostro periodo storico e luoghi piena di sfumature e contraddizioni, ci spinge a ridere di noi stessi e allo stesso tempo di quelli che consideriamo nemici o “diversi”.

La diversità, non a caso, è un argomento cardine di Triangle Of Sadness e viene anch’essa declinata nelle varie (e contraddittorie) sfaccettature con cui oggi è avvertita e talvolta, purtroppo, sfoggiata. Lo slogan “siamo tutti uguali”, tanto ripetuto nel film all’interno delle classi sociali maggiormente privilegiate, non è altro che un palliativo, una frase di circostanza che si nasconde con ipocrisia dietro la maschera perbenista dell’inclusività e dentro i codici preimpostati del linguaggio pubblicitario, ma in realtà denota semplicemente l’essere terrorizzati e il non saper comprendere chi è diverso.

I modelli che posano per i fotografi e le sfilate – tutti rigorosamente di gusti sessuali ed etnie differenti – e i facoltosi ospiti dell’imbarcazione esercitano il “fascino” – particolarmente indiscreto e urlato, a suon di pubblicazioni sui social, abiti firmati e discorsi qualunquisti – della borghesia, di un mondo patinato ed elitario, abitato da esseri (dis)umani che sguazzano nell’incoscienza e non riescono a guardare oltre la propria bolla.

Quando la nave affonda, i pochi superstiti spariscono in quello che, indirizzati dal titolo, potremmo definire un triangolo della tristezza (più che delle Bermuda), dove i valori si invertono: per assicurarsi la sopravvivenza, i ricchi sono costretti ad inginocchiarsi a chi è meno agiato – in questo caso l’inserviente Abigail – ma decisamente più avvezzo al senso pratico e alle situazioni di emergenza. La donna, unico punto di riferimento per il gruppo di sventurati, sperimenta i giovamenti che si possono trarre dall’essere in una posizione di vantaggio e la sua legittima rivendicazione si trasforma presto in un crudele gioco al massacro.

E così, l’accusa tagliente rivolta per due atti di film al capitalismo e alla classe borghese con i suoi vizi e le sue superficialità, radicate nel tempo ma tutte contemporanee, si evolve nel terzo in una condanna altrettanto brutale delle classi minori, e quindi del popolo, che forse si comporterebbe alla stessa maniera dei padroni se fosse posto in una condizione di privilegio e superiorità. “Siamo tutti uguali”, dunque, ma non certamente come vogliono farci intendere la propaganda mediatica e l’imperante ostentazione pubblicitaria.

La Palma d’Oro è sicuramente meritata, e per quanto oggi possa valere un riconoscimento del genere, anch’esso posizionato nell’ottica di allineamento al linguaggio commerciale, avrebbe meritato l’Oscar come miglior sceneggiatura, perché i dialoghi di questo film ci tirano dentro lo schermo e ci costringono a provare lo stesso fastidio dei personaggi mentre litigano o approfittano l’uno dell’altro, e ci ricordano che anche i nostri dialoghi talvolta possono essere così falsi e inopportuni, che si parli di un conto salato al ristorante da dividere o in altra sede di questioni urgenti come la guerra e la disuguaglianza sociale.

"Triangle Of Sadness", premiato con la Palma d'Oro al Festival di Cannes, è una critica tagliente alla borghesia e in generale all'intera umanità contemporanea, schiava delle logiche del capitalismo e del linguaggio pubblicitario.

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