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Anatomia Di Una Caduta, la recensione: un’opera magnetica e asincrona dove trionfa la potenza di ciò che non si può (e non si deve) vedere

Leggendo la trama e poi controllando la durata – due ore e mezza – del nuovo film di Justin Triet viene da pensare che forse neanche la Palma d’Oro al Festival di Cannes riuscirà a salvare lo spettatore dalla noia, e invece possiamo assicurarvi che sarebbe un pensiero completamente fuorviante. Anatomia Di Una Caduta inizia con una sequenza potentissima e ammaliante di puro cinema e da quel momento non si ferma più. Indubbiamente, qualcosa di magico pervade ogni comparto del filmico – regia, fotografia, musica, recitazione, montaggio, sceneggiatura – trasformando un thriller giudiziario in apparenza molto classico – e quasi documentaristico nella sua ponderatezza narrativa e drammaturgica – in un’esperienza sensoriale asincrona piena di sfumature misteriosamente non significanti.

Il lavoro che viene fatto in scrittura sul personaggio di Sandra Hüller è positivamente disturbante, nel senso che la sua doppia personalità – talvolta sembra un essere diabolico e freddamente calcolatore, in altre circostanze invece è più che legittimo credere alla sua innocenza – coadiuva le atmosfere del thriller psicologico. L’ambiguità di pensieri e azioni non appartiene però singolarmente a lei o a suo marito, ma ad entrambi in quanto coppia preda di un caos spesso impossibile da ordinare, nei rapporti come nella vita. Justin Triet allora inganna con il titolo e disdegna l’anatomia – nel processo, a detta dell’avvocato, non conta la verità -, raccontando invece l’asincronia di una caduta, fisica e sentimentale.

Archiviato il processo – in tutti i sensi – (filo)logico e razionale, in questo film sotterraneamente trionfa la potenza di ciò che non si può (e non si deve) vedere. Daniel, il bambino diventato cieco, ne è sicuramente una materiale dimostrazione. Il cane, essere vivente asincrono rispetto all’umano eppure così legato a lui simbioticamente, può rappresentare una specie di doppio a cui ci troviamo a fare del male – vedi l’avvelenamento da aspirine causato dallo stesso Daniel – pur di scovare una luce nel buio e avvicinarci alla verità. Tuttavia, anche se da questo disperato tentativo possiamo trarre un indizio che aiuti l’indagine, quel buio rimane imperscrutabile e serve dunque spogliarsi di qualsivoglia certezza affidandosi alla volontà di credere.

L’imponderabilità di cui sopra è fortemente riscontrabile nell’empatia e nell’identificazione tra uomo, bestia e natura e infatti molti film recenti che brancolano in questa ricerca – Gli Spiriti Dell’Isola, Godland, Dogman, tanto per citarne alcuni di questa e della scorsa stagione cinematografica – ne fanno, chi più esplicitamente chi meno, il centro nevralgico dell’esperimento. D’altronde, la comunicazione – non verbale, quindi oltre il nostro linguaggio – tra esseri umani e animali – e sicuramente anche il rapporto con la ciclicità degli eventi naturali – sembra nascondere qualcosa di estremamente ancestrale e misterioso. Un qualcosa che non può (e non deve) essere (s)coperto.

Justin Triet muove passi da gigante con un film pieno di sfumature che sovverte il classico thriller giudiziario e si apre al caos dell'indecifrabile tramite un personaggio ambiguo e un enigma impossibile da risolvere (e da vedere). Più che anatomia, è l'asincronia di una caduta. Vincitore della Palma d'Oro al settantottesimo Festival di Cannes.

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